“Waking Life” di Richard Linklater – recensione

Quando si parla di cinema sperimentale, solitamente c’è un particolare film che mi ritorna alla mente, e quando fra nuovi conoscenti ci si ritrova a consigliarsi le pellicole preferite, quelle che più ci hanno emozionato, o sapete, di quelle che improvvisamente piombano nel momento giusto del vostro percorso, all’età giusta, pronte ad aprivi gli occhi su chissà quale scomparto del mondo sconosciuto, ecco che ancora una volta è alle immagini di “Waking Life” che penso.
Sono incappato nel film di Richard Linklater (“Boyhood” e la trilogia “Before”) durante i primi anni del liceo, in un periodo in cui ero alla ricerca di qualcosa che riuscisse a soddisfare una mia particolare curiosità e attrazione per il mondo onirico, e soprattutto per il “sogno lucido”. Questo è un eccentrico fenomeno psichico, una condizione del sonno in cui il soggetto ha modo di sperimentare la consapevolezza del dormire e, teoricamente, avere la capacità di modellare la forma e la sostanza del proprio sogno, con tutte le infinite possibilità che ciò può comportare. Mi dicevo, “il presupposto narrativo per chissà quante storie, quante opere”, e “Waking Life” riusciva a cogliere in maniera del tutto originale e profonda il potenziale di un simile concetto.
Il film racconta di un giovane ragazzo intrappolato in un sogno lucido, alle prese con una realtà completamente distorta, alla mercé di casuali incontri con stravaganti personaggi, nei luoghi più comuni, dal ciglio di una strada californiana al bancone di un offuscato pub, ad un accogliente salotto di famiglia.
E così seguendo la danza tragica del sognatore nel suo tentativo di risveglio, scopriremo come ognuna di queste persone ha qualcosa da dire al nostro protagonista: un’enigmatica poesia o una bizzarra teoria sull’origine della coscienza umana, una dedica alla folle casualità dell’esistenza o una genuina riflessione sulla rabbia, la comunione, la sacralità. Ben presto ci si accorgerà infatti che il motore del film sono il linguaggio utilizzato, l’espressione e il dialogo fra queste identità che si incontrano.

Lungi dal risultare una mera compilazione di astrazioni e discorsoni, “Waking Life” è semplicemente un sincero ed esplicito sguardo su diversi aspetti della vita umana, ognuno dei quali viene esternato e incarnato allo stesso tempo da un uomo o una donna diversi, estremamente capaci di calarsi nei panni del “guru”, del rivelatore, del suggeritore di turno. Le dichiarazioni dalle quali il ragazzo si lascia trasportare, sono espressione di ammirazione verso il mondo e al contempo tentativo di indagarlo e spiegarlo al prossimo che vorrà
ascoltare. É anche qui l’originalità della pellicola, nel chiedere direttamente allo spettatore di ascoltare, più che osservare, non distrarsi ma prestare attenzione. Prestare attenzione e accorgersi che il casuale e innocuo discorso di un passante può celare al suo interno un universo di simboli, segni, tracce di esperienze e vissuti, orizzonti e prospettive future nel quale potersi riconoscere.
Non che l’aspetto estetico del film sia da meno, dato che l’autore ha optato per la tecnica del “rotoscope”, mettendo in forma di disegno a mano tutte le scene precedentemente girate, e in piena libertà artistica scegliendo i colori, le sfumature, gli schizzi e guizzi, che più si confacevano all’animo e sentimenti dei personaggi.
Difficile da descrivere a parole, l’esperienza di un’opera del genere non può che arricchire la mente dello spettatore, fornendogli molteplici chiavi di lettura della propria quotidianità, facendo capire come in fondo senza il dialogo e la comunicazione con l’altro non si potrebbe mai essere sé stessi, non si potrebbe mai crescere e maturare. “La vita da svegli (waking life) è un sogno sotto controllo” affermava un filosofo spagnolo, Santayana, per cui mi verrebbe da chiedermi, ribaltando la logica del sogno lucido:”Cosa accadrebbe se un giorno ci accorgessimo piuttosto di essere svegli?”.

Tommaso Lonzar

“The Irishman” di Martin Scorsese

Alla Festa del Cinema di Roma ho assistito all’ultima opera di Martin Scorsese, un Gangster movie d’autore che si fa già modello della narrativa cinematografica, della ricostruzione storica e l’uso innovativo della tecnologia. Nelle sale dal 4 al 6 novembre e su Netflix dal 27, The Irishman è il racconto per eccellenza, il frutto di un’arte narrativa ormai matura e sapiente, che sa dosare i propri espedienti e punti forza.
Siamo nel 2000 e un ormai anziano Frank Sheeran (De Niro) riavvolge il nastro della memoria per far luce sulla propria vita da efferato sicario al soldo del boss Russell Bufalino (Pesci). In un’ascesa che lo porterà da mercante di carni a pedina determinante nella scacchiera politica americana del dopoguerra, Sheeran svolse un importante ruolo da intermediario fra la Cosa Nostra statunitense e la controversa figura del sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino), scomparso misteriosamente nel ’74. Così Scorsese è
riuscito ancora una volta a coinvolgermi nel suo mondo, con uno stile tipicamente tagliente e ironico, che più volte mi ha trascinato nella risata, un ritmo incalzante e un coraggioso ma lodevole processo di ringiovanimento del cast tramite computer grafica.
E che dire degli attori, con questa triade di premi Oscar che domina costantemente sullo schermo, ormai veterani dell’incarnare ed esprimere le più enigmatiche e potenti sfaccettature del “criminale”. Ho avuto l’esatta impressione che la sala si fosse dissolta, ritrovandomi come spettatore inerme dell’esistenza di un altro uomo, assistendo attonito al fiorire delle sue amicizie e il dilagare dei suoi rimorsi, paure e violenze.

Ma The Irishman ricorre al vocabolario del genere gangster per parlare di altro, del concetto di fine, di memoria, di amicizia e fedeltà. Si presenta come monumentale punto di arrivo del regista italo-americano, che con questo film riesce nuovamente ad omaggiare la complessità e ricchezza dell’esistenza umana, mostrandone i lati più provocatori e oscuri.

Tommaso Lonzar

“Honey Boy” di Alma Har’el

Vincitore speciale al Sundance Film Festival e acclamato alla Festa del Cinema di Roma, “Honey Boy” è la storia del difficile rapporto che può nascere fra padre e figlio, visto e raccontatoci dal punto di vista di quello stesso figlio, l’attore Shia Labeouf, che ha scritto la sceneggiatura per la direzione di Alma Har’el.

Labeouf, famoso per i suoi guai con la giustizia, ha scritto il soggetto mentre si trovava in riabilitazione dopo una condanna, quasi a esercitare una sorta di esorcizzazione del proprio turbolento passato. Un esorcismo che non si ferma alla penna ma passa direttamente all’interpretazione dello stesso padre, ex-clown da rodeo, alcolizzato ed eroinomane. Seguiamo così due fasi della vita dell’attore hollywoodiano, nel film Otis Lort, da quando già promettente volto del cinema (interpretato da un commovente e abile Noah Jupe) manteneva il padre grazie ai proventi del suo lavoro, al giovane adulto che divenne, in perenne lotta per soffocare  l’affliggente ricordo di un genitore che gli ha determinato l’esistenza (in questa fase messo in scena dal già affermato Lucas Hedges).

É stata una piacevole sorpresa trovare al festival romano un film così struggente e sensibile, in cui Labeouf è riuscito a condurmi con la delicatezza e la dolorosa sincerità necessari, nei momenti più emozionanti della sua convivenza col padre, in un fatiscente motel prima e nei pensieri poi. Così accompagnati da una fotografia calda e nostalgica, sulle notte di una colonna sonora strimpellante e malinconica (come la simbolica “Glimpses” di Alex Ebert), ripercorriamo le radici di Labeouf, che ci insegna tramite la sua migliore interpretazione come l’arte può essere la migliore medicina per fare i conti con i propri amati demoni del passato.

Tommaso Lonzar

Non il solito villain: “Joker” di Todd Philips

Il film di Todd Philips, vincitore del Leone d’oro a Venezia, tratta con sensibilità e coraggiosa franchezza il tema della malattia mentale. E lo fa con il sorriso di Joker (Joaquin Phoenix), un personaggio che chiede comprensione e sa suscitare compassione nel mostrare al pubblico quanto il dramma di una vita abbia anche i suoi caratteri spettacolari e tragici.
Nel fare questo, Philips ci fornisce una versione del Joker del tutto autoriale, che prende a modello i vari maestri del cinema a sfondo sociale (da Scorse a Schumacher e Polanksi), allontanandosi dall’immaginario canonico del fumetto, per immergere l’acerrima nemesi di Batman in un coinvolente realismo.
Arthur Fleck è un clown per eventi nella sudicia e corrotta Gotham, un emarginato che tenta di portare avanti la propria vita insieme alla madre, al di là delle violenze e soprusi che quotidianamente il mondo imprime sulla sua pelle.
Il suo sogno è però quello di prendere un giorno in mano la propria esistenza e farsi protagonista di una lucente carriera da comico per il grande pubblico, incarnata dall’inarrivabile fama della star televisiva Murray (De Niro). Il tutto mentre per le strade la gente è prossima alla sommossa contro un’amministrazione che favorisce i ceti più abbienti e ignora l’indigenza della maggioranza, ne opprime le possibilità di riscatto, conducendo alcuni suoi cittadini a lasciarsi guidare, come trottole dal fato, al di fuori dei binari, scardinando qualsiasi limite morale, qualsiasi norma sociale. Ed è qui che nasce Joker.
Allora la città si fa canale per l’energia indomabile del folle clown, a cui non importa della rivoluzione, o della brutta fine per il cattivo ricco, delle crepe nella propria testa o delle ceneri del mondo. Ad Arthur interessa solamente poter essere Arthur, a pieno, nel suo incomprensibile squilibrio psicologico, il che non mi porta a condannarne l’efferratezza né a giustificarne le scelte. Perchè ciò che si può provare di fronte al corpo di Arthur (un magistrale e camaleontico Phoenix), così scarno e contorto prima e leggiadro e fatale dopo, è semplice ammirazione, di quell’ammirazione spontanea e imparziale che si può
sperimentare semplicemente osservando un bruco rinascere dalla propria crisalide.

Tommaso Lonzar

“C’era una volta a… Hollywood” di Quentin Tarantino

Il cinema di Quentin Tarantino ha sempre poggiato sui propri personaggi, così eccentrici e taglienti, profondi e stratificati, come a serbare nel proprio cuore tante altre storie taciute. “C’era una volta a… Hollywood”, presentato quest’anno a Cannes, è l’ulteriore prova della capacità di scrittura dell’autore, che qui costruisce un ponte fra realtà storica e fantasia, su cui i personaggi dei due mondi possono conoscersi e scontrarsi.
Sul variopinto e accecante sfondo della Summer of Love un coro di eroi, principesse e mostri compie le proprie gesta. Ed è attraverso le vicissitudini del “prode” Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) che attraversiamo una Los Angeles tutta led e rock ‘n roll. Lui, un’ex star televisiva e la sua inseparabile controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), sono entrambi alla ricerca di un proprio posto in una Hollywood che non riconoscono più, ormai contaminata dal cinema d’oltreoceano, qui rappresentato da Polanski. É poi il turno di Sharon Tate (Margot Robbie), la stella attorno cui volge l’intera mitologia di un intreccio destinato a incrociare le polverose e infernali strade della “Manson Family”. Troverete così un pantheon ricco dei più svariati dèi e semi-dei, storici e immaginari, burleschi e caricaturali, da Bruce Lee ai personaggi di Margaret Qualley e Al Pacino.
Tarantino ha il coraggio di ri-scrivere la storia e farla favola, raccontando quel mondo idealizzato che fu la California dei Sessanta attraverso una delicatezza e sensibilità che poco ci si aspetterebbe dal suo stile “violentistico” e satirico. Ma è qui il bello, la tipica arroganza creativa, da iena, si scioglie in un atto d’amore che sboccia in colori, accordi e forme che narrano di un mitico passato.
Il regista non tradisce il proprio spirito provocatorio, ma lo converte in un magistrale omaggio alla sua intera esperienza cinematografica, al Western e all’Italia, alla cultura pop della televisione seriale e al cinema in sé. Perché innumerevoli sono gli schermi nella pellicola, che fra una citazione e l’altra, ci pongono in rapporto con l’arte dell’essere spettatore in sé, la bellezza del sedere in sala e recuperare all’eternità le stelle che illuminarono i cieli di un tempo.

Tommaso Lonzar